Libri su Giovanni Papini

1978


Ferdinando Castelli

Volti della contestazione
Strindberg Pèguy Papini Camus Mishima Kerouac Böll

[Capitolo]    Giovanni Papini, l'odissea, pp. 126-206

[Sottocapitolo]    Sggio critico, pp. 136-174        
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Dai primissimi anni del secolo a pochi mesi della morte, nel campo della cultura italiana, la sua è stata una presenza viva e vivificante, tumultuosa e sconcertante, profetica e contestatrice; una presenza che è andata rivelando in lui molteplicità di volti, anzi di anime: polemista, poeta, pensatore, erudito, saggista, stroncatore, cercatore, esploratore d'anime, veggente, contemplativo, martire. Vien da pensare ad un fiume solenne, percorso da innumeri correnti che ora si snodano verso la foce, armonicamente, ora s'intersecano e s'arruffano, sopraffacendosi.
   A motivo di questa molteplicità di volti è difficile catalogare Papini. Una cosa è certa: che si condanna a nulla comprendere di lui chi si ostina a vederlo in una sola angolatura. Papini è anche letterato, anche polemista, anche poeta, anche erudito, anche narratore, anche analista del suo tempo: e le 15.000 pagine pubblicate ne offrono testimonianza perentoria. Ma è qualcosa di più; trascende improvvisamente gli aspetti definiti e si presenta ora come sintesi di contrari, ora come convergenza di particolari, ora come fisionomia inedita.
   La definizione migliore della sua personalità di scrittore ce l'ha fornita lui stesso, in una lettera a Domenico Giuliotti, del 3 marzo 1920. All'accusa dell'autore dell'Ora di Barabba di scrivere sotto dettatura del diavolo («La tua penna, per vent'anni, ha scritto a dettatura del diavolo. Tu sei stato per vent'anni, un avvelenatore di te stesso e degli altri»), Papini rispondeva:

   E credi davvero che tutta la mia opera passata, anche nelle parti più pure e tormentate, sia stata scritta sotto dettatura del demonio? Non ti sembra che vi si legga, per chi sa leggere, un'aspirazione all'assoluto e all'infinito, una insofferenza delle imbecillità comuni, borghesi e filistee e farisee, un desiderio spasimante di luce, di certezza, di elevazione spirituale, di liberazione dalla materia e dal male 1?


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Ecco Giovanni Papini. Anima dai riflessi agostiniani e pascaliani, in uno sfondo del tutto particolare. Vogliam dire: appassionato cercatore di verità, nostalgico di Dio, spirito totalitario; ma anche temperamento ringhioso, polemista violento, scrittore paradossale e verboso, combattente audace. In tutti questi aspetti, inconfondibile, spesso sconcertante, a volte magnifico.
   E allora, come si fa a collocarlo, mettiamo, in una storia della letteratura? Del resto, chi non avverte un senso di disagio a scorrere, in una letteratura francese, le poche pagine — o righe? — dedicate a quell'anima di fuoco che fu Léon Bloy, tanto caro e tanto vicino a Papini? Vien fatto di ricordare il famoso pensiero di Pascal: «[...] ci aspettavamo di trovare un autore e troviamo invece un uomo» 2. Un uomo che ha saputo scoprire ed esprimere, in modo nuovo, alcune componenti universali, dunque essenziali, dello spirito umano.
   Per comprendere e amare Papini è necessario oltrepassare la pura letteratura (che poi non è vera letteratura) per abbandonarsi alla ricerca dell'uomo che sorpassa infinitamente se stesso: fatto per l'infinito, ma è costretto a camminare su tante strettoie; assetato di verità, ma vagolante nel dubbio e nell'ignoranza; affamato di giustizia, di bellezza, di vita, di superamenti, di purezza, d'amore, di salvezza, ma avviluppato in un intrico di miserie e di limiti. L'uomo, insomma, creato da Dio e per Dio ma trattenuto dalla terra e per la terra.
   In fondo l'avventura papiniana — come di tanta letteratura dell'Ottocento e Novecento — è una parafrasi dell'assioma agostiniano: «Poiché ci hai creati per te, o Signore, e inquieto è il cuor nostro finché non riposa in te » 3.
   Caratteristica di Papini è aver sempre accolto e fomentato questa inquietudine metafisica, senza mai stancarsi di cercare, di bussare a tutte le porte, interrogare tutti i passanti, superando la tentazione di abbandonarsi alla sfiducia e assopirsi


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sui cigli delle strade. Nel suo scavallare attraverso la babele delle più svariate correnti di pensiero — dal pragmatismo all'idealismo, dal pessimismo al misticismo magico, da un moralismo di dubbia lega ad uno scetticismo esasperato e disperato — egli non si è mai rassegnato a rimanere fermo. Ha avuto sempre un istinto particolarmente pronto ad intuire il falso e scorgere gli equivoci, e buttarli da parte, per passare oltre, sempre oltre.
   Va sottolineato anche, accanto alla furibonda ricerca della verità, l'alto concetto che Papini ha sempre avuto della vita. Anche quando amoreggiava col pessimismo e vergava pagine di negazione dei valori umani e folleggiava esaltando il suicidio — un suicidio addirittura collettivo — tutto ciò trova la sua spiegazione nel fatto che quanto scopriva, dentro e fuori di se', non rispondeva alla sua concezione della vita. La schiaffeggiava perché la vedeva banale, ma senza sapere che cosa sarebbe stato necessario per renderla degna d'essere vissuta.
   Quando lo seppe fu tale la sua gioia da trasformare in canto d'amore e in sussulto di giovinezza anche le ore buie della vita. Poco prima della morte, ha dettato questa scheggia:

   Mi stupiscono, talvolta, coloro che si stupiscono della mia calma nello stato miserando al quale mi ha ridotto la malattia. Ho perduto l'uso delle gambe, delle braccia, delle mani e sono divenuto quasi cieco e quasi muto [...].
   Ma non bisogna tener in picciol conto quello che mi è rimasto ed è molto ed è il meglio [...]. Ho sempre la gioia di poter ascoltare le parole di un amico, la lettura di una bella poesia o di una bella storia, posso sentire un canto melodioso o una di quelle sinfonie che danno un calore nuovo a tutto l'essere.
   E tutto questo non è nulla a paragone dei doni ancor più divini che Dio mi ha lasciato. Ho salvato, sia pur a prezzo di quotidiane guerre, la fede, l'intelligenza, la memoria, l'immaginazione, la fantasia, la passione di meditare e di ragionare e quella luce interiore che si chiama intuizione o ispirazione. Ho salvato anche l'affetto dei familiari, l'amicizia degli amici, la facoltà di amare anche quelli che non conosco di persona e la felicità di essere amato da quelli che mi conoscono soltanto attraverso le opere. E ancora



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posso comunicare agli altri, sia pure con martoriante lentezza, i miei pensieri e i miei sentimenti.
   Se io potessi muovermi, parlare, vedere e scrivere, ma avessi la mente confusa e ottusa, l'intelligenza torpida e sterile, la memoria lacunosa e tarda, la fantasia svanita e stenta, il cuore arido e indifferente, la mia sventura sarebbe infinitamente più terribile. Sarei un'anima morta, dentro un corpo inutilmente vivo. A che mi servirebbe possedere una favella intelligibile se non avessi nulla da dire? Ho sempre sostenuto la superiorità dello spirito sulla materia: sarei un truffatore e un vigliacco se ora, arrivato al punto della riprova, avessi cambiato opinione sotto il peso dei patiri. Ma io ho sempre preferito il martirio all'imbecillità.
   E giacché sono in vena di confessioni voglio andare al di là del verosimile e spingermi fino all'incredibile. I segni essenziali della giovinezza sono tre: la volontà di amare, la curiosità intellettuale e lo spirito aggressivo. Nonostante la mia età, a dispetto dei miei mali, io sento fortissimo il bisogno di amare e di essere amato, ho il desiderio insaziabile di imparare cose nuove in ogni dominio del sapere e dell'arte e non rifuggo dalla polemica e dall'assalto quando si tratta della difesa dei supremi valori.
   Per quanto possa parere ridevole delirio ho la temerità di affermare che mi sento anche oggi sollevato, nell'immenso mare della vita, dall'alta marea della gioventù
4.

   La scheggia riportata è lunga; non soltanto, però, è una splendida pagina antologica, ma rivela la grandezza della sua anima ed il segreto della sua opera, anzi della sua vita, a cominciare dagli anni lontani quando, adolescente fiorentino e lettore affamato, si rifugiava, per leggere, sotto i lampioni di Piazza Santa Croce nelle sere d'inverno, o sotto i cipressi di San Miniato nelle mattine d'estate.

Fervore di progetti e passione di polemica

   Alto, scontroso, solitario, capelli arruffati, miope, era nato con «la malattia della grandezza». Affermarsi, saper tutto, raggiungere le frontiere estreme della scienza; avventurarsi su tutti i sentieri, interrogare vivi e morti, ghermire i segreti


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dell'anima e portarseli dentro per gridarli all'umanità intera; distruggere per costruire, separare per unificare, mordere per vivificare: sono alcune linee del suo sogno di grandezza, ed anche traguardi di ribellione e di rivincita.

   Ero brutto e spregevole — lo so e lo sapevo anche allora — ma pure sotto questa bruttezza e quella miseria c'era un'anima che voleva sapere, conoscere la verità, imbeversi tutta di luce e sotto quel cappellaccio untuoso e quella testa spettinata c'era un cervello che voleva capir ogni idea e dappertutto ragionare o sognare — c'era una mente che di già guardava quel che gli altri non vedono e si nutriva là dove i più non trovano che vuoto e desolazione. Perché nessuno ha capito e mi ha dato quel che mi toccava per diritto? 5.

   Perché, nessuno? Perché era povero e perché attorno a lui non c'era molto di che sfamarsi. Della sua povertà — non solo economica, ma anche affettiva — si rese subito conto: era compagna d'ogni giorno; dello squallore (intellettuale) del suo tempo si accorse dopo aver divorato, con furore crescente, enciclopedie e biblioteche.

   E mi gettai a capofitto in tutte le letture che mi suggerivano le mie pullulanti curiosità o i titoli de' libri che trovavo nei libri che andavo leggendo e intrapresi allora, senza esperienza, senza guida, e senza un qualsiasi disegno, ma con tutto il furore della passione, la vita dura e magnifica dell'onnisapiente 6.

   Studiò e rivisse nel suo spirito i grandi sistemi filosofici: pessimismo, positivismo, monismo, idealismo, solipsismo, pragmatismo; ascoltò i messaggi delle grandi religioni; s'inebriò di poesia. Taluni autori gli si presentarono come amici da sempre ricercati, altri come avversari da respingere senza misericordia, altri ancora come persone da correggere e animare. Il lavoro ferveva, l'anima bruciava, l'ora incalzava.
   Il giovane Papini s'era ormai consacrato cavaliere d'assalto.


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«Armato di lancia per la difesa e per l'offesa, all'inizio del secolo, penetra abusivamente nel regno della cultura. Assume un tono inconfondibile e la sua penna diventa in breve prestigiosa, porta scompiglio negli ambienti tradizionali. Come un nuovo capitano di ventura guida bande di giovani ingegni che riconoscono in lui la guida dietro cui intrupparsi per sommuovere gli olimpici silenzi di maestri sonnacchiosi» 7. I suoi primi scritti rivelano l'intento di inquietare gli spiriti, metafisicamente; di agire sul mondo per cambiarlo, innalzandolo; di abbattere pareti per scrutare orizzonti nuovi e liberatori. Accettare il mondo così com'era, impossibile.

   Io son rimasto, insomma, l'uomo che non accetta il mondo e in questo mio atteggiamento ostinato consiste l'unità e la concordia delle mie anime opposte. Io non voglio accettare il mondo com'è e perciò tento di rifarlo colla fantasia o di mutarlo colla distruzione. Lo ricostruisco coll'arte o tento di capovolgerlo colla teoria. Son due sforzi diversi ma concordi e convergenti 8.

   In questo clima di contestazione nacque la rivista Leonardo (1903). Nacque all'insegna dell'insofferenza. Insofferenza per il «pecorismo nazareno» di tanti cristiani, insofferenza per la chiusa cultura italiana e provinciale, insofferenza per la vacuità dei filosofi che vivevano facendo «variazioni di nomenclatura», insofferenza per le «forme inferiori dell'arte», insofferenza per il «panborghesismo» della politica e per ogni accademismo. Infine (merito quasi esclusivo di Papini) insofferenza per tutti i monismi, sia materialistico, sia idealistico 9.
   Nel gruppo redazionale — comprendente Borgese, Cecchi, De Karolis, Spadini, Bodrero, Calderoni, Vailati — primeggiavano Prezzolini («Giuliano il Sofista») e Papini («Gian Falco»). Quest'ultimo suggestionava tutti con l'irruenza del


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la sua passione sovvertitrice e della sua cultura, e con la sua forte personalità.
   Nel Programma sintetico si presentavano come «giovini, desiderosi di liberazione, vogliosi d'universalità, anelanti ad una superior vita intellettuale»; nella vita si dichiaravano «pagani e individualisti, amanti della bellezza e dell'intelligenza, adoratori della profonda natura e della vita piena, nemici di ogni forma di pecorismo nazareno e di servitù plebea»; nel pensiero erano «personalisti e idealisti, cioè superiori ad ogni sistema e ad ogni limite, convinti che ogni filosofia non è che un personale modo di vita — negatori di ogni altra esistenza fuor del pensiero»; nell'arte amavano «la trasfigurazione ideale della vita» e aspiravano «alla bellezza come suggestiva figurazione e rivelazione d'una vita profonda e serena».
   Nella stagnante atmosfera fiorentina la comparsa del Leonardo fu una gran ventata, un soffio di Sturm und Drang — si disse — senza romanticismo. Tutta impeto ed estro, ardimentosa e scomposta, spavalda e contestatrice, più passionale che speculativa, rifletteva l'anima del suo duca 10, Gian Falco, che nel numero di febbraio 1906 scriveva:

   Sono passato dal solipsismo alla contingenza, dal pragmatismo all'Uomo-Dio, ma non c'è mancata un momento quell'inquietezza interna, quella mobilità dello spirito, quella felice presunzione, quell'irriverenza ironica e violenta, quel desiderio insaziabile del grande e del nuovo che sono le più odiate e invidiate qualità della giovinezza.

   E nell'agosto dello stesso anno:


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   Modificare gli uomini, amputare e ingrandire anime, trasformare spiriti: ecco l'arte mia favorita. Il mio scopo è dunque ben preciso: non si tratta d'un moto politico o religioso, ma puramente spirituale e interno [...].
   Far sentire la necessità di fare qualcosa d'importante perché la nostra vita abbia un senso e qualche bellezza. Strappare le anime dai solchi della vita comune e portarle su in alto, a contemplare da lontano e in libertà i possibili destini degli uomini e la terribile sciocchezza dell'esistenza ordinaria.


   Il Leonardo, anche se rifondato e ristrutturato, morì nel 1907, ma Papini era ormai lanciatissimo in tutte le avventure del pensiero. La sua presenza — più irruente anche se meno profonda di quella di Benedetto Croce — dominava il dibattito culturale. Perennemente insoddisfatto e inquieto, si avventurava nelle diverse filosofie, poi le rifiutava per cercare altrove, non importa in quale direzione o in compagnia di chi. Ebreo errante del sapere — come si definì più tardi — gli riusciva impossibile fermarsi e sistemarsi in un paese. Attraverso le sue scorribande ideologiche, gli capitava spesso d'imbattersi in filosofi che con le loro sottigliezze e pedanterie gli si rivelano estranei, anzi nemici, in vista della costruzione d'un nuovo modo d'essere e d'operare.
   acque così il Crepuscolo dei filosofi (1906). Nella Prefazione scriveva:

   Questo non è un libro di buona fede. È un libro di passione e perciò d'ingiustizia — un libro ineguale, parziale, senza scrupoli, violento, contradittorio, insolente come tutti i libri di quelli che amano e odiano e non si vergognano dei loro amori né dei loro odi [...]. Questo libro è un pezzo, o un insieme di pezzi, di un'autobiografia intellettuale. È uno dei prodotti della mia liberazione da molte cose di cui ho sofferto — è il tentativo, in special modo, di liberarmi dalla filosofia e dai filosofi 11.

   La filosofia era stata per lui l'amore della gioventù senza


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amore; ad essa aveva dedicato il suo ardore e alle sue formule aveva affidato tante sue speranze. Ne era stato deluso. Il Crepuscolo voleva essere — si legge ancora nella Prefazione

   «un processo alla filosofia, uno sforzo per dimostrare la vanità, la vacuità, e la ridicolaggine della filosofia [ ...] una liquidazione generale di questo equivoco aborto dello spirito umano, di questo mostro di sesso dubbio che non vuol essere né scienza né arte, ed è un miscuglio di tutte e due senza riuscire ad essere uno strumento di azione e conquista».

   Dunque, un atto di morte della filosofia in generale, nella persona dei suoi maggiori esponenti: Kant, Hegel, Schopenhauer, Comte, Spencer, Nietzche. Era necessario che costoro fossero accantonati per rendere possibile l'avvento di quei valori capaci di fondare un'esistenza più degna più integrale.
   «In questa, che non è dunque un'ordinata critica di sistemi, ma piuttosto una serie di stroncature e di caricature di filosofi, il grande polemista nascente dà prova di possedere in sommo grado il talento, tutto fiorentinesco ma fortificato da particolari attitudini, di saper cogliere l'aspetto più odioso e più ridicolo degli uomini e delle cose, nonché di ritrarcelo con le parole più cariche di sarcasmo, più atte a suscitare lo scherno. Ciò che si ricerca in questo genere di scritture non è la giustizia e nemmeno la misura, ma soltanto che i colpi vadano a segno e divertano» 12.
   Sarebbe però ingiusto sottolineare, nell'autore del Crepuscolo e nel futuro inquieto stroncatore, l'aggressività polemica, il romantico furore profetico e la sbrigatività e intolleranza delle sue posizioni; bisogna andare oltre, fino a scoprire l'esigenza d'una cultura «viva, vissuta, eccitatrice di vita», e il bisogno di liberarsi dal peso d'una eredità svuotata d'anima e di prospettive. L'azione papiniana «valse a stimolare la riflessione, a destare nuove idee, e malgrado tutto, anche a rinnovare il gusto e la coscienza critica. Era una irruente manifestazione di anticonformismo e d'indipendenza, oltre che lodevole nelle sue serie intenzioni, in certo senso esemplare per


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tutta una generazione e forse per più generazioni, nell'abulica conformistica società letteraria italiana, che nella professorale accademia del maturo Marzocco rispecchiava la sua sensibilità e la sua povertà d'interessi umani» 13. Con Papini e dopo Papini tutta una generazione di giovani s'è sentita più forte e più pronta a conquistare nuove posizioni, ribellandosi a vieti accademismi, rifiutando luoghi comuni e pregiudizi radicati.
   Non solo, ma si deve molto a Papini e all'azione delle «riviste fiorentine» (Leonardo, La voce, L'anima, Lacerba) se fu possibile aprire le porte della cultura italiana alle correnti più vive e più sostanziose d'oltralpe e d'oltreoceano. In Un uomo finito scrisse:

   Siamo stati i primi, in Italia, a parlare di molti uomini nostri e stranieri, dimenticati od ultimi, che ora tutti citano e allora nessuno conosceva neppur di nome, e ne abbiamo parlato con riverenza, con amore, con entusiasmo. Abbiamo diffuso, primi o quasi, idee recenti, indirizzi di pensiero malnoti o in formazione, scuole a cui nessuno, fra noi, badava e pensava. Abbiamo risuscitato la passione per i vecchi mistici; abbiamo dato ad alcuni giovani l'impensato gusto per le matematiche; abbiamo posti e discussi problemi che parevan lontanissimi dalla nostra cultura nazionale (p. 107).

«Questa storia drammatica del mio cervello»

   Dove voleva approdare il «disgraziato cercatore», come gli piacque chiamarsi, dopo esser corso dietro a tanti fantasmi del pensiero e avventure intellettuali? Un esame di coscienza s'imponeva, ora che, sulla soglia dei trent'anni, la giovinezza era al tramonto, ed i sogni assurdi di palingenesi e di «trasmutazione di valori» che avrebbero dovuto trasformare il mondo, si andavano frantumando. L'esame di coscienza assume forma drammatica in un'opera fra le più emblematiche e appassionanti: Un uomo finito (1912).


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   È la «storia di un'anima» o, meglio, un'autobiografia spirituale, idealizzata ed epicizzata, vergata di getto, in una prosa franca, robusta, «plebea», spesso venata di poesia. In essa è narrata la vicenda, lucida e appassionante, d'un fallimento personale, ma per molti aspetti tipico. Particolarmente significativa è l'ultima pagina: sintetizza il libro.

   Eccomi qua: mi sono aperto e sparato; ho messo a nudo visceri e nervi come in tante tavole di anatomia. Se vorrete potrete far conoscenza col più vero me stesso e salvarvi dai giudizi precipitosi. Qui dentro non c'è la mia biografia ma c'è il corso esatto dei miei avvenimenti interiori. Tutto il resto dell'opera mia trova qui la sua spiegazione e la sua chiave. Non è questa un'opera d'arte; è una confessione a me stesso e agli altri. Qui imparerete a conoscere il misantropo sentimentale e ingiuríatore ch'è riuscito, se Dio vuole, così profondamente antipatico a tanta gente. Vi dò nelle mani il mio spirito, vi squaderno i documenti e le difese. Su questo e con questo voglio esser giudicato. Io seguiterò a fare, a lavorare, con voi, accanto a voi, ma un periodo della mia vita s'è chiuso e voglio che si tenga conto di questo mio disordinato sfogo in cinquanta capitoli.
   Io mi presento ai vostri freddi occhi con tutti i miei dolori, le mie speranze e le mie fiacchezze. Non chiedo pietà né indulgenza, né lodi né consolazioni, ma soltanto tre o quattr'ore della vostra vita. E se dopo avermi ascoltato crederete lo stesso, a dispetto dei miei propositi, ch'io sia davvero un uomo finito dovrete almen confessare ch'io son finito perché volli incominciare troppe cose e che non sono più nulla perché volli esser tutto (pp. 296-297).


   «Finito», dunque, ma solo perché non è riuscito ad essere «infinito». In realtà, il libro racconta il dramma d'una coscienza inquieta, pungolata dal miraggio di poteri umani e sovrumani, di totalità e di assolutezza, costretta, infine, ad assistere al naufragio della «conquista della divinità» e di quanto tale conquista comportava: santità, taumaturgia, penetrazione del mistero. Del tentativo di «diventare Dio» il libro analizza la genesi, le tappe, l'ebbrezza; vari capitoli riecheggiano toni nietzchiani, vaneggiamenti misticheggianti, prospettive di quanti (Novalis, Lautréamont, Poe, Mallarmé) han tentato di dare la scalata al cielo.


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   Le pagine più riuscite (oltre quelle che ricordano la fanciullezza dell'autore) sono quelle che descrivono il frantumarsi dei sogni folli: in esse è dato anche rintracciare l'iter di quanti, insofferenti della condizione umana, hanno osato oltrepassare le colonne d'Ercole.

   Chi ha voluto tutto come può accontentarsi del poco? Chi ricercò il cielo come può compiacersi della terra? Chi s'inoltrò sulla via della divinità come può rassegnarsi all'umanità? Tutto è finito, tutto è perduto, tutto è chiuso. Non c'è più nulla da fare. Consolarsi? Neppure. Piangere? Ma per piangere ci vuole ancora dell'energia; ci vuole un po' di speranza! Io non son più nulla, non conto più, non voglio niente: non mi muovo. Sono una cosa e non un uomo. Toccatemi: son freddo come una pietra, freddo come un sepolcro. Qui è sotterrato un uomo che non poté diventar Dio (p. 202).

   Un uomo finito, però, non si conclude sul fallimento. Tutt'altro! «Adagio, ragazzi! — leggiamo nel capitolo Non sono finito —. Aspettate un poco, di grazia. Altro che finito. Ma se non ho ancora cominciato [...]. Il meglio vien ora: io nasco soltanto oggi». Svaniti i miraggi folli, il protagonista drizza la prora verso lidi più autenticamente umani: il gusto della vita comune, il profumo dell'amicizia, il ritorno alla terra dei padri, il bisogno d'«un po' di certezza». Il capitolo XLI, intitolato appunto Un po' di certezza, è tra i più ricchi di pathos, di significato, di prospettive. Ha il ritmo d'una preghiera e la risonanza d'una nostalgia che si confonde con la voce profonda della natura umana.

   Io non chiedo né pane, né gloria, né compassione [...]. Ma chiedo e domando, umilmente, in ginocchio, con tutta la forza e la passione dell'anima mia, un po' di certezza; una sola, una piccola fede sicura, un atomo di verità! Io vi prego e vi scongiuro, per tutto quel che avete di più caro e di più prezioso, per la vostra vita, per la vostra amata di oggi, per la vostra idea preferita, di dirmi se c'è tra voi chi abbia quel che cerco, se v'è qualcuno che sia certo, che conosca, che sappia, che viva e si muova nel vero. E se c'è, e non sbaglia e non s'inganna, e s'è generoso quant'è fortunato, dica a me quel che conosce e quel che sa, lo riveli sotto giuramento, e mi faccia pagare, quanto vuole, come vuole, la sua verità.


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   Ho bisogno di un po' di certezza — ho bisogno di qualcosa di vero. Non posso farne a meno; non so più vivere senza. Non chiedo altro, non chiedo nulla di più, ma questo che chiedo è molto, è una straordinaria cosa: lo so. Ma la voglio in tutti i modi — a tutti i costi mi dev'essere data se pur c'è qualcuno al mondo cui preme la mia vita [...].
   Senza questa verità non riesco più a vivere e se nessuno ha pietà di me, se nessuno può rispondermi, cercherò nella morte la beatitudine della piena luce o la quiete dell'eterno nulla (pp. 246-250).


   Opera «emblematica», dunque, questo rude racconto autobiografico, da alcuni esaltata come tra le più significative del Novecento. Un giudizio sereno ci è offerto da G. Grana. Secondo questo critico in Un uomo finito «vi è sempre l'abituale gusto declamatorio, una prolissa insistenza su motivi o temi retorici, baroccamente oberati d'immagini; una letteratura che oggi resiste male alla lettura. Ma spesso l'autore ritrova anche una serenità d'animo, una melanconica fantasia, poeticamente produttiva. Nel soliloquio impetuoso, e anche enfatico e urtante, autoapologia pronunciata, anzi gridata, con l'intento di restituirci un'immagine eroica di sé, l'invadenza della personalità papiniana infine stanca e opprime. Ma il dramma della mente, la tensione ideale di un'anima posseduta di smisurate ambizioni, è rivissuto con sincera passione, e la vicenda eterna delle imperiose e sconsiderate audacie dell'adolescenza e della giovinezza, di tante generose illusioni purtroppo destinate al naufragio, è analizzata e descritta, confessata anzi come esperienza tormentosa, con un'eloquenza a volte altamente drammatica. Sono i capitoli più altamente vibrati e vigorosi di questa lunga confessione, che in altre pagine, quando realmente e pacatamente si confessa e non declama o conclama le sue ragioni, ci offre una nostalgica e veritiera evocazione della vita vissuta, ricca di felici spunti lirici e narrativi. Dove l'autore si affida alla rappresentazione del paesaggio liricamente idealizzato, o cede alla memoria delle cose care e amate, a sentimenti più intimi di accorata partecipazione, alla malinconia assorta di certe rimembranze e patetiche confessioni, quella foga polemica si placa in un eloquio sommesso e toccante, persino


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commovente. L'espressione è allora più sobria e commisurata al sentimento, e la toscana prosa papiniana rivela i suoi pregi migliori, colorita, espressiva, armoniosa, ricca di modi e di forme senza lenocini e compiacenze estetizzanti. È appunto il Papini narratore e poeta, prosatore di genuina vocazione, che ci consegna alcune tra le sue pagine più belle» 14.

La conversione

   Figliolo di padre ateo; battezzato di nascosto; cresciuto senza prediche e senza messe, non ho mai avuto quelle che si chiamano «crisi d'anima», «notti di Jouffroy» o «scoperte della morte d'Iddio». Per me Dio non è mai stato morto perché non è mai stato vivo nell'anima mia 15.

   Da molto tempo Papini era andato conclamando il suo ateismo. Nelle Memorie d'Iddio (1911) esso è un ritornello cantato in ogni tono. Il libro, dallo stesso autore definito satanico 16, rigurgita d'un'insolenza che a volte sconfina nel sacrilegio, come quando si prospetta una «mistica dell'ateismo». Dio non soltanto è spersonalizzato, ma ridotto a tale miseria e scetticismo da dubitare di sé stesso. Esiste solo perché qualche mortale ancora lo pensa.
   Ne L'altra metà. Saggio di filosofia mefistofelica, dello stesso anno, Papini «rivaluta con altro audace capovolgimento il


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Nulla, riaffermando la positività del Negativo, il valore del non-Valore, l'essenza del non-Essere, del Male, di Satana, del mondo delle tenebre. È il punto culminante della sua esasperata e disperata sofistica negatrice. Ma è una negazione che nasce da una tormentosa esigenza d'affermazione e di fede, da un'intima istanza religiosa» 17,
   Negava Dio, e lo bestemmiava, ma in fondo ne sentiva nostalgia e segretamente lo invocava. C'era in lui un'energia spirituale, oscura e prepotente, che gli impediva d'insabbiarsi nelle secche del positivismo, del pragmatismo, dello scetticismo. La sua anima era più forte del suo cervello: anima profondamente religiosa, naturalmente cristiana. Leggendo i Vangeli, Sant'Agostino, Pascal l'Introduction à la vie dévote di San Francesco di Sales, gli Esercizi spirituali di Sant'Ignazio, i mistici spagnuoli (Lullo, Santa Teresa d'Avila, San Giovanni della Croce) e i tedeschi (soprattutto Meister Eckhart, Suso, Beihme) credeva d'inseguire cultura; in realtà inseguiva Dio e invocava Cristo.
   Il Papini degli anni anteriori alla conversione dà l'idea dell'innamorato che s'adira con l'amata ma perché l'ama. E lui amava Cristo, da vari anni, senza saperlo. Nel Crepuscolo dei filosofi lo aveva difeso contro Nietzche:

   Leggendo il Vangelo ci s'accorge facilmente che il Cristianesimo è, almeno nella persona del suo fondatore, un tentativo magnifico per sopprimere quei deboli e quei malati che movevano la rabbia e lo schifo dell'anticristiano Nietzsche. Cristo è venuto al mondo non solo per annunziare il Regno dei Cieli ma anche come apportatore di salute e di forza (p. 205).

   Se non si decideva all'incontro definitivo era sia per la carenza d'una conoscenza interiore e approfondita del cristianesimo, sia per la difficoltà di scuotersi di dosso anni e anni di polverume anticristiano, sia per la paura d'intrupparsi nella «nuova ondata cattolicante» nella quale — ricordava 18


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erano venuti a finire, dopo Huysmans e Verlaine, Claudel e soci. In Italia, tra gli altri, ci era cascato «Domenico Giuliotti del quale molto si sperò ma dal quale uscì soltanto un volumettino di poesie terribilmente impersonali e letterarie» 19.
   La «conversione» avvenne nel 1919. La guerra, con la sua carica di tragedia, e il rimorso per averla invocata e pretesa; la prima Comunione delle sue bambine e la dolcezza cristiana della moglie; i rimbrotti amichevoli, ma pungenti e martellanti, di Giuliotti.
   In una famosa lettera a Papini, Giuliotti, trascinato dal suo fervore missionario, dopo avergli dato del protestante, del razionalista, del modernista e dell'eretico, conclude con l'invito a rinnegare completamente quanto aveva scritto fino ad allora. Riportiamo un brano perché riflette l'anima di un amico a Papini carissimo.
   «Hai dunque da imparare a farti il segno della Croce, da imparare a inginocchiarti, da imparare a credere nell'incomprensibile e da imparare, infine, corazzato dalla Fede, a combattere unicamente per la verità della Chiesa che è la verità di Dio.
   Metà della tua vita l'hai spesa, deplorevolmente, per il mondo e per te stesso; ora bisogna, «ed è urgente e improrogabile», che tu spenda la metà che ti resta per la salvazione delle anime e per la gloria di Dio. La tua penna, per vent'anni, ha scritto a dettatura del diavolo. Tu sei stato, per vent'anni, un avvelenatore di te stesso e degli altri.
   Bisogna cancellare e riscrivere.
   I tuoi libri, alcuni infami, altri vani, altri belli ma profani, buttali risolutamente, e con gioia, sul rogo delle vanità.
   E ricomincia da capo.
   Dopo la «Metà Nera» deve splendere, sulla tua vita nuova, la «Metà Bianca».
   Rovesciati, rinnovati, rimondati, interamente.
   Spargi sulla tua anima, prima che imbianchi, il sale della verità.
   Fiùtati: sentirai che ti strascichi dietro il cadavere di te stesso; che non sarai libero né sicuro finché tu non l'abbia seppellito e non gli abbia calcato la terra addosso.
   Scrivi per rinnegare tutto ciò che hai scritto, per essere folle, tra i savi del mondo, della follia della Croce.
   Mettiti contro-corrente.
   Lotta, ricoperto dagli sputi della marmaglia, sotto l'insegna della Croce, finché la marmaglia non t'ammazzi.
   Ecco la gloria» 20.
   Tutto ciò aveva spianato il terreno. Ma l'elemento decisivo — oltre che nella grazia — va ricercato in un bisogno interiore e improrogabile dello Scrittore. «Bisogno di certezza della mente sazia di pluralità, paga di quel lungo e dispersivo


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esercizio disgregatore e dissolvitore, di tante sofistiche sovversioni; bisogno di ricomposizione e d'ordine morale, di fede totale, dopo così lungo smarrimento, così precarie conquiste intellettuali, così effimeri entusiasmi, e l'inevitabile sbocco scettico. Fu anche una faticosa conquista intellettuale, questa volta durevole, ma non olimpicamente e conformisticamente acquietante. Non fu insomma — egli stesso lo scrisse — il rifugio in un comodo asilo, l'accettazione supina di una norma morale o di uno schema dottrinale. Vi giunse ‘non senza contrasti interni e qualche repugnanza’, poi superati: e nella sua milizia cristiana, di scrittore cattolico, saprà anche affermare una notevole indipendenza di giudizio e un apprezzabile anticonformismo» 21.

La Storia di Cristo

   Più che una «storia» è una serie di meditazioni sulla vita di Gesù: una specie di grande affresco, dalle tinte forti, vive, insistite, composto di oltre novanta scene, per presentare all'uomo di oggi l'Uomo-Dio. Presentando il Cristo, Papini lo testimonia, lo esalta, soprattutto lo invoca, con l'entusiasmo del neofita, con la gioia del viandante che, dopo anni di smarrimento, approda alla casa del padre, col bisogno di gridare a tutti — ma specialmente agli uomini di cultura — l'urgenza d'un ritorno al Salvatore.
   Un'opera — la Storia di Cristo — di contestazione violenta: non solo nei riguardi d'una società religiosamente apatica e banalmente intenta ad organizzarsi in una civiltà meccanica e materialistica, ma anche nei riguardi del suo autore. Aveva inseguito chimere, insultato i credenti, decantato certe follie ateistiche, tentato la scalata per conquistare la divinità: doveva, per esigenza d'onestà, proclamare la vanità del cammino percorso, cambiar rotta, espiare.
   In quest'opera di contestazione creatrice Papini impegna tutto se stesso. Non descrive, ma rivive; non fa storia o esegesi, ma vita; non si attarda in speciose disquisizioni, ma va


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al cuore del messaggio cristiano; non accosta delicatamente i lettori, ma li aggredisce; non parla a voce bassa, ma urla; a volte la narrazione si tramuta in meditazione a voce alta o in invocazione appassionata o in polemica violenta.
   Poteva il vecchio Gian Falco rinnegare se stesso, seppur convertito? In realtà, anche nella Storia di Cristo, Papini resta acre polemista, fustigatore dei suoi simili, demolitore spietato dei vari speciosi idoli. Nei quadri della Storia, sotto la maschera dei farisei, di Pilato e di Erode, non è difficile scorgere i lineamenti dei nostri contemporanei che ripetono il dramma dell'uomo di fronte a Cristo.
   Tale capacità sottrae la storia al tempo e coinvolge il lettore in scelte di fondo e impellenti. Papini, senza mai perdere di vista il Protagonista della sua Storia, anzi nello sforzo continuo di tutto far convergere su di lui, incalza il suo lettore, lo pungola, lo sommerge di parole che gli fluiscono da un'impazienza d'amore, lo sospinge verso il Maestro, lo costringe ad essere attore del dramma, a prendere le sue decisioni. Se il lettore s'attarda, dubbioso e pauroso, Papini torna all'attacco, prospetta i suoi ragionamenti in ottiche nuove, esaspera le tinte e i contrasti, ricorre a modi irruenti. Capita anche che la miseria umana gli detti pagine soffuse di tristezza e di pietà.

   Egli [Cristo] ha voluto trasformare gli uomini a sua somiglianza secondo le parole del suo annunziatore Ezechiele: «E io vi darò un cuore nuovo e metterò in voi uno spirito nuovo e toglierò il cuore di pietra dalla vostra carne e porrò in voi il mio spirito».
   Ci chiama all'imitazione d'Iddio, ad essere governati direttamente da Dio, cioè divinamente liberi. Siate santi come Dio è santo; perfetti come Dio è perfetto; perdonate come Dio perdona; amatevi come Dio vi ama: se farete questo non vi saranno più tra voi nemici e padroni, infelici e poveri, omicidi e calpestati ma il Regno dei Cieli ci compenserà degli ingiusti regni della terra.
   Questa è stata l'opera di Gesù. Anche Gesù, come il serpente del giardino, ma con opposto fine, ha detto agli uomini: Siate come dei. Ma gli uomini non hanno avuto forza di ubbidirlo. Dio è troppo distante e il brago ha le sue dolcezze. Troppa fatica ci vuole al



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vermo involto nel grassume della belletta per tramutarsi in santo approssimarsi a quella perfezione ch'è la sola felicità degna d'esser cercata, la sola che non deluda.
   E hanno rifiutato quel che Cristo aveva offerto con tutto il suo sangue grondante. E per non udire la sua voce molesta che chiamava a un'impresa troppo difficile l'hanno soffocata sulla croce. Hanno avuto il terrore di perdere i loro beni di sasso, di metallo e di carta e non hanno creduto ai beni infiniti che prometteva in iscambio. E per questo rifiuto e questo terrore è morto quel giorno sul Teschio, gridando nel buio, il Figlio dell'Uomo.
   E ogni volta che ognuno di noi non risponde a quel grido suo dà un nuovo colpo sui chiodi che lo tengono appeso da tanti secoli all'indistruggibile Croce
22.

   La parte del libro che descrive la passione è la più ricca di drammaticità, di grazia inventiva e figurativa, di partecipazione: dà l'impressione d'una rappresentazione sacra medievale e secentesca, nello stesso tempo. In tutto il volume, del resto, Papini indulge al gusto della scenografia e dell'enfasi oratoria, agli impeti d'un giudice apocalittico.
   È però innegabile il fascino che il volume esercita sul lettore. «È forse per quel tanto di partecipazione e di passione appunto, che in Papini avvertiamo sempre nell'accento fermo della parola, e anche nell'enfasi smodata. O è forse l'attrattiva, che è pure allettamento e lenocinio, di uno stile lucido e prestigioso, a volte baroccamente ingegnoso, di una lingua fertilissima d'invenzioni e ricca di qualità espressive, anche e proprio quando si tende nel bollore della polemica» 23.
   Il messaggio di Cristo, secondo Papini, consta di due elementi essenziali: la conversione e l'amore che ne consegue. La conversione si ottiene rinnegando il vecchiume del mondo per vivere secondo la novità del Vangelo. In questa prospettiva Gesù si presenta come il più grande Capovolgitore della storia.

   Ma il più grande Rovesciatore è Gesù. Il supremo Paradossista,


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il Capovolgitore radicale e senza paura. La sua grandezza sta qui. La sua eterna novità e gioventù. Il segreto del gravitare d'ogni gran cuore, presto o tardi, verso il suo Vangelo. S'è incarnato per rifare gli uomini, confitti nell'errore e nel male; errore e male trova nel mondo e come potrebbe non capovolgere le massime del mondo? (p. 98).

   La conversione deve portarci a quell'amore che costituisce l'annuncio più rivoluzionario ed esaltante del Vangelo. Cristo «è colui che riconduce Adamo alle porte del Giardino e gli insegna come può rientrarvi e abitarlo per sempre»: con la pratica dell'amore-caritas.

«Ambizioni smisurate»

   Tra le note che caratterizzano la personalità di Papini vanno ricordate la grafomania, «l'ambizione del grande e del troppo», la volubilità. Se la conversione, col possesso della verità definitivamente raggiunta e col superamento di risentimenti e insofferenze, pose un freno alla sua spericolatezza intellettuale, non placò i bollori del suo spirito. A sessantacinque anni finiti annoterà, nel Diario:

   È strano come io conservi, a questa età, ambizioni smisurate che ogni giorno riaffiorano: di costruire una nuova filosofia, di scrivere una storia degli uomini, di fare un dramma fantastico che abbracci tutta la vita ecc. ecc. 24.

   In verità, l'immagine che di Papini vien fuori dalla lettura del Diario, pubblicato postumo, è quella d'un vulcano in fase d'eruzione continua. Ci si stupisce come il cervello di quell'uomo abbia potuto reggere a un'ebollizione continua di progetti, di sogni, di propositi: son tanti che, a tirarne le somme, vien da concludere che le opere attuate sono solo una decima parte di quelle solamente ideate.
   A Papini mancava il senso della misura. Non seppe tempestivamente calcolare, almeno in modo approssimativo, il tempo e le forze che gli sarebbero state necessarie per la realizzazione


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di quanto andava progettando. Il più delle volte erano disegni e titoli di opere che svanivano appena gli erano brillate alla mente. Ciò che gli fece velo contro un più equilibrato programma di lavoro fu senza dubbio l'incontrollata ambizione di lasciare opere che abbracciassero tutti i campi, opere immortali, sulla scia del suo Dante e del suo Michelangelo, alla cui attuazione non sarebbe bastata una vita e per le quali non disponeva certamente di un'adeguata preparazione.
   Aveva pensato ad una Bibliotheca mundi, ossia «dizionario di tutti gli scrittori colla lista completa delle opere». Accanto a una Filosofia della storia vagheggiava di mettere un «saggio di nuova teologia» intitolato Le quattro redenzioni, mentre fino a poco prima ne aveva sostenute tre, quella del Padre, la seconda del Figlio, la terza dello Spirito Santo profetata dal Gioacchino da Fiore. Poi ancora una «teologia per tutti» sotto il titolo La scienza di Dio, un Commento spirituale al Vangelo, un libro Il Paradiso riconquistato, la continuazione della Storia della letteratura italiana, una Vita dell'uomo, L'umana tragedia, Il Terzo Testamento, un dialogo immenso Il teatro del mondo, «dove tutti i viventi, Dei, dèmoni, angeli, uomini, animali dicono la loro visione e il loro giudizio su tutto, sull'universo e sulla vita».
   Vagheggiava di scrivere un libro sulla Storia come rivelazione e ne mostrò il sommario al Cardinale Arcivescovo («Il clero italiano teme qualsiasi arditezza; crede, con questa tattica di talpa, di salvarsi e invece fa perdere sempre più alla Chiesa il suo potere di attrarre le anime») 25, un romanzo autobiografico Simone e Letizia, una tragedia su Alessandro Magno, un'altra sui dittatori sconfitti, una terza, in cielo, che avesse per protagonisti «Theos e Lucifero» («Vorrei sperimentare anche il teatro, per raggiungere moltitudini nuove» 26, un Mistero divino e umano intitolato La fine, che comincia con un dialogo tra le persone della Trinità e finisce con la distruzione del mondo.


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   Inutile continuare: ci sarebbe da riempire pagine intere. Ma non possiamo passare sotto silenzio il sogno — ambizioso e, a volte, furioso — che accompagnò Papini per oltre cinquant'anni: comporre una di quelle opere che restano nei secoli. Sarebbe dovuto essere il suo libro: un affresco michelangiolesco capace di esprimere la tragedia umana. Un «pauroso tema», un «superbo assunto» che lo ha impenitentemente affascinato e spaventato; un' «opera immensa», «redentrice», «enorme, paurosa, oltreumana», a cui consacrò tempo, studi, slanci. Si sarebbe dovuto chiamare Rapporto sugli uomini (o Adamo). Fatto, disfatto, rifatto più volte, è rimasto un mucchio di cartelle, testimone d'un ambizioso sogno svanito. Al Rapporto si affiancò l'idea d'un Giudizio Universale, un'altra opera che lo esaltò e occupò per anni e anni. Il 18 febbraio 1945 annotava nel Diario:

   Oggi, all'improvviso, m'è balenato dinanzi una nuova costruzione del Giudizio Universale. Invece d'una serie di confessioni in ordine cronologico una vera e propria tragedia, tutta dialoghi, con risoluti contrasti tra il Bene e il Male e tra risorti e risorti. Sacra e profana rappresentazione, tutta agitata e mossa dalle invettive, difese, contese. Mistero in 40 tempi (p. 286).

   A quest'opera — leggiamo ancora nel Diario (15 ottobre 1944) — :

   Io son chiamato e preparato dall'indole mia stessa, dalla mia multiforme cultura, dalla mia attitudine a risentire e comprendere stati d'animo diversi e opposti, dal mio desiderio antico di giudicare e trasformare gli uomini (p. 244).

   Aveva ragione. I suoi vari e vasti interessi, í suoi impegni culturali, le sue enciclopediche conoscenze, il suo immenso bagaglio d'esperienze intellettuali, morali, letterarie e umane lo predisponevano alla concezione e alla realizzazione di un disegno «sovrumano», nel quale impegnare tutte le sue «risorse e riserve» di poeta, di pensatore, di credente, di moralista, di storico, di uomo vissuto; la fede gli rendeva familiari i temi cristiani della ‘vita eterna’; in fondo tutto il suo lungo itinerario d'artista, d'uomo di lotte e di fede avrebbe potuto


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avere il suo coronamento in un'impresa così temerariamente ambiziosa.
   Il Giudizio Universale è stato pubblicato postumo e incompiuto: massa di cartelle, ricchissima di riferimenti storici, di prospettive culturali ed enciclopediche, di pensiero etico-religioso. La scena si svolge alla fine del mondo. Sulla terra la razza si è estinta e si è prossimi all'avvento del Giudice. Raccolti su lande desolate, nell'attesa della grande sentenza, dinanzi agli angeli accusatori, personaggi storici e personaggi immaginari «confessano le loro colpe, si difendono, invocano misericordia, o s'indurano nell'orgoglio e nella rivolta», mentre, tra un gruppo e un altro di confessioni, i cori esprimono il timore e la speranza.
   L'idea era geniale e grandiosa. All'autore è mancata la capacità di trasfigurare il materiale in opera artistica. Il Giudizio Universale è un capolavoro mancato. Le confessioni e apologie si prolungano in uniformità di tono, prive d'epicità e di grandezza; la vistosità delle immagini e lo sforzo oratorio non riescono ad animare la materia; volti, voci e vicende restano frantumati e isolati.
   Ci sono pagine, però, nelle quali l'ispirazione esplode in luce di poesia e di fantasia, in rievocazioni di vicende umane ricche di pathos, in figurazioni chiare e precise.

   C'è un canto dentro di me che non potrà mai uscire dalla mia bocca, — che la mia mano non saprà scrivere sopra nessun pezzo di carta [...]. C'è un canto dentro di me che resterà sempre dentro di me 27.

   In queste battute c'è tutto il dramma dello scrittore fiorentino. Intuiva il miracolo della trasfigurazione artistica, ma non gli riusciva di tradurla in atto componendo il Giudizio (né le altre opere «titaniche»); perciò gli era balenata l'idea di bruciare il manoscritto. Non lo bruciò, ma neanche lo pubblicò. E ciò testimonia onestà e buon senso artistico.


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Tre modelli

   Non gli riuscì di comporre un'opera di genio, ma volle vivere in compagnia dei geni: di coloro cioè che hanno avuto la capacità di comprendere l'uomo nella sua totalità, ed esprimersi in splendore di forme. Della presenza loro la sua opera è piena: sgusciano da ogni pagina, con le loro intuizioni, la loro diversità, la loro universalità. Li accostava con la passione del cercatore di perle, li ascoltava con avidità, se ne riempiva l'anima. Il Diario specialmente ci offre la possibilità di seguirlo nei suoi incontri con i «grandi»: musicisti, poeti, romanzieri, mistici, pensatori, pedagoghi, agiografi, santi.

   Sentendo leggere il «Coro degli Spiriti sopra le acque» di Goethe mi sento riempir l'anima da un desiderio di cantare in versi: il canto dell'uomo occidentale (Diario, 10 marzo 1946).
   Vado a un concerto di violoncello e piano: Vivaldi, Beethoven, Franck, ecc. La sera ascolto le più belle musiche di Schubert.
   Soccombo, ancora una volta, alla magia di quest'arte che parla con tanta prepotenza all'anima (ivi, 11 marzo 1946).
   Soltanto i grandi mi attirano e ad essi sempre ritorno. Si tratta di quel «titanismo» che più volte mi fu rimproverato o di naturale amore per le vette? (ivi, 17 giugno 1947).
   Da qualche giorno non lavoro ma leggo molto e di tutto un po': Maeterlink, Gide, Fliilderlin, Zweig, Green, il libro di Curtius su Balzac, Goethe, Cestov, Jeans, Einstein, Bachofen. Mi sembra d'essere tornato ai bei tempi della mia giovinezza affamata di libri e d'idee (ivi, 7 aprile 1945).


   Fra tutti i grandi ne predilesse tre: Agostino, Dante, Michelangelo. Li considerò sempre come «modelli»: creatori di pensiero e di arte, uomini ebbri di vita, pedagoghi e maestri, «più vivi dei vivi».
   In Sant'Agostino oltre che una guida, Papini ritrovò riflessa la sua avventura spirituale.

   Posso dire che, prima di tornare a Cristo, Sant'Agostino fu, con Pascal, l'unico scrittore cristiano ch'io leggessi con ammirazione non


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soltanto intellettuale. E quando mi dibattevo per uscire dalle cantine dell'orgoglio a respirare l'aria divina dell'assoluto, Sant'Agostino mi fu di gran soccorso. Mi sembrava che tra lui e me qualche somiglianza ci fosse 28.

   Difatti, «anche lui letterato e amatore delle parole, ma insieme cercatore inquieto di filosofie e di verità, tanto da essere tentato dall'occultismo, anche lui sensuale e desideroso di fama».
   Sant'Agostino è «la storia di un'anima», descritta con partecipazione e commozione, con freschezza di stile e immediatezza di rappresentazione. Le inquietudini terrestri, le lotte spirituali e intellettuali, la conversione, gli slanci del numida trovano nell'anima del fiorentino una risonanza che affratella ed esalta. Non solo, ma accanto al Santo Papini ritrova, una volta per tutte, quella dimensione spirituale — anzi cristiana — che conferisce ordine e significato a tutto l'umano.
   Accanto a Sant'Agostino, i due «fratelli grandi» di Papini: Dante e Michelangelo. Dante vivo «vuol essere un libro vivo d'un uomo vivo sopra un uomo che dopo la morte non ha mai cessato di vivere».

   Ho cercato la verità con quell'amore che un tanto genio meritava e spero di non aver tradito né il vero né lui [...]. Ma in lui ho sempre visto e amato, oltre il titano, l'uomo con tutte le sue umane debolezze, l'artista con tutti i suoi tormenti dinanzi all'indicibile, e perciò son riuscito anche a volergli bene davvero 29.

   Il Dante visto da Papini è, dunque, un uomo che, «nel mezzo del cammin di nostra vita», si sente impigliato nella «selva oscura», tra le «contingenze carnali» e le «contingenze storiche», e appesantito, nel suo itinerario verso l'Alto, dalla sua dolorosa umanità. Un Dante demitizzato, ricondotto dal cielo sulla terra, capace d'interessare l'uomo di oggi.
   Ci sono nel volume capitoli — La solitudine di Dante,


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Dov'è ora Dante? — degni del Divino Poeta, ma l'insieme non convince. Dante non è vivo per le ombre della sua umanità, né queste possono spiegare la grandezza e l'universalità del suo poema. La vitalità e la potenza di Dante vanno ricercate in altre dimensioni. Lo sapeva anche Papini affermando che Dante è uno di quei grandissimi «che hanno saputo espellere gli elementi ignobili o hanno saputo bruciarli per far più viva la fiamma».
   Anche di Michelangelo Papini amava le grandezze e le miserie; e come pochi avvertiva la tragica sofferenza d'un genio impegnato ad esprimere l'inesprimibile. La Vita di Michelangelo «si propone di narrare la vita dell'uomo Michelangelo, d'indagare, attraverso le vicende, le amicizie, le debolezze, le sventure, le ascensioni e le confessioni, l'animo suo, il suo carattere, il suo spirito». Il lavoro d'indagine storica, biografica e filologica è solido e stimolante: fa rivivere avvenimenti e uomini in un susseguirsi di sfondi sui quali si staglia la personalità del Buonarroti. A volte si ha l'impressione della frammentarietà, ma ciò non infirma «l'acutezza di certi rilievi e l'originalità di certe angolazioni critiche; né va sottovalutata una certa finezza di osservazione psicologica, e in genere la qualità artistica dei racconti biografici, dov'è apprezzabile in genere una raggiunta maturità stilistica » 30.

J'accuse

   L'abbiamo detto: dopo la conversione Papini s'è moderato; si è maturato intellettualmente e moralmente, ma in fondo è rimasto sempre un polemista e un moralista, dalla grinta di fustigatore universale, in balia d'una fantasia effervescente e incline al bizzarro e al paradosso. Tre opere riflettono in modo singolare tali caratteristiche: Gog, il suo seguito Il libro nero e Lettere agli uomini di Papa Celestino VI.
   Gog è un'opera singolare, tra le più rappresentative e riuscite di Papini; era anche tra le sue preferite. Chi è Gog? che


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vuole? che fa? Avventuriero d'origine hawaiana, divenuto ricchissimo, «volle pagarsi tutte le forme dell'epicureismo cerebrale dei nostri tempi», acquistando «un fiuto perverso delle più estreme ideologie». Dopo le più pazze avventure volle sperimentare la vita povera. Solo, sbrendolo e affamato, sull'Appennino toscano, incontra una bambina che gli offre un tozzo di pane scuro, con un sorriso timido. «[...] addentai il pane con voluttà. Non ho mai sentito un sapore così buono e ricco. Che sia questo il vero cibo dell'uomo? e questa la vera vita?» 31.
   Su queste battute termina il libro. Quale il suo significato? L'autore ha inteso con esso offrirci «un documento singolare e sintomatico: spaventoso, forse, ma di un certo valore per lo studio dell'uomo e del nostro secolo [...]. In questo cinico, sadico, maniaco, iperbolico semi-selvaggio ho veduto una specie di simbolo della falsa e bestiale — per me — civiltà cosmopolita e lo esibisco ai lettori d'oggi collo stesso animo che gli Spartani mostravano ai loro figlioli un ilota sconciamente briaco». In Gog, insomma, e nelle sue esperienze, si svelano, con ingrandimento grottesco, «le malattie segrete (spirituali) di cui soffre la presente civiltà» (pp. 10-12).
   Nell'Uomo finito Papini confessava di sé: «Mi assediano le storie assurde, i progetti bizzarri, le avventure incredibili». Gog è l'espressione di questi assedi: un prodigio orgiastico di fantasia. Si esce dalla lettura del libro storditi e oppressi. Il sapere di una biblioteca mescolato a visioni degne di Poe vi turbina in un susseguirsi impressionante di scene, di avvenimenti, di personaggi. Gog, regale compilatore di chèques, può tutto vedere, tutto permettersi. È presentato agli uomini più rappresentativi del mondo, assolda i progettisti più pazzi, si cava i capricci più assurdi, colleziona le cose più rare, assiste agli esperimenti più impensati. La civiltà delle macchine, del denaro, del godimento, dell'irrazionalismo, gli si offre in ispettacolo nei suoi uomini, nelle sue teorie, nelle sue affermazioni.


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Gog è l'uomo finito nel significato pieno del termine. È l'uomo che tenta e ritenta di crearsi un'autosufficienza, di farsi dio lontano da Dio e contro Dio, con tutti i mezzi. I sentieri che portano alla scalata del cielo sboccano, però, sul fallimento e sul nulla, mentre riecheggia sul loro orizzonte il vanitas vanitatum del vecchio Qoelet.
   Gog è afferrato da una noia mortale per tutto ciò che gli uomini chiamano piacere, felicità, conquista. Il danaro nella sua enorme potenza è sterile: non gli offre consolazione alcuna. Il senso del suo nulla, la vanità d'ogni cosa, la sua insopportabile piccolezza lo perseguitano. Se alza gli occhi al cielo, lo sente estraneo, nemico: «Il cielo è soltanto il telone sinistro dove leggo ogni notte la sentenza della mia nullità irrimediabile».
   Se poi posa lo sguardo sull'umanità...

   Il disgusto delle mandre umane che si accalcano nelle città mi soffoca, certe sere, fino al punto di farmi pensare, se non vi sarebbe un modo rapido e pratico di sbrattarle radicalmente dalla terra. Certe faccie bestiali intorno al pasto, certi corpi che sembrano null'altro che sacchi di putridume sormontati da maschere di obbrobrio, mi fanno sentire il massacro totale della nostra specie come una missione di pulizia urgente, come un dovere (p. 382).

   Pessimismo totale? No. Il libro termina con la visione della bambina che offre a Gog un pezzo di pane buono. «Che sia questo il vero cibo dell'uomo? e questa la vera vita?». La conclusione cristiana è evidente, anche se Gog resta impigliato nelle sue follie. Comunque, l'uomo ha la sua redenzione.
   In esergo al volume leggiamo una frase dell'Apocalisse (XX, 7): «Satana sarà liberato dal suo carcere e uscirà per sedurre le nazioni, Gog e Magog... ». Il j'accuse di Papini è rivolto alla nostra società satanica, scardinata da Dio e costruita sul culto del denaro e dell'autosufficienza. Un j'accuse gridato in toni così forti e allucinati da lasciare il lettore stordito. Papini grida perché ama, dipinge mostri perché sa dell' «angelica farfalla», colpisce ma per sanare.


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   Libro pagano, questo Gog, ma apologetico, nell'intenzione. Per essere compreso in pieno ha bisogno di lettori capaci di oltrepassare gli schemi della pura letteratura e situarsi nel cuore del dramma umano.
   Il j'accuse continua con le Lettere agli uomini di Papa Celestino VI, ma in toni più distesi e su sfondi meno crudi e bizzarri. L'accusa spesso si trasforma in esortazione, e la polemica è sempre sostenuta dalla presenza della carità cristiana. «Queste Lettere — confessava Papini in un'intervista 32 scaturiscono direttamente dal dolore, dallo sdegno, dalla disperazione che ho sentito passarmi nell'anima nei vari momenti della tragedia italiana e mondiale; ed hanno luce e ispirazione nella fede in Cristo, nella speranza insoffocabile che il messaggio di Cristo abbia, oggi più che mai, la potenza di trarre a salvamento gli uomini dal turbine che minaccia di sommergerli. La figura di questo papa fantastico che parla agli uomini reali, è qui: in questo contrasto di cupissimo dolore e di inesauribile amore, di disperazione e speranza».
   Il libro fu composto nel 1946, periodo post-bellico, doloroso e cupo per dissoluzione morale e smarrimento spirituale. L'Autore voleva da una parte porre gli uomini di fronte alle proprie responsabilità, dall'altra orientarli verso un'autentica rivoluzione cristiana. Così, di fronte ai quadri dalle tinte forti e ai rimbrotti con cui va colpendo l'umana debolezza, addita sempre traguardi capaci di farci lottare e sperare.
   Agli storici ricorda che «la storia dell'uomo non è che un episodio, un capitolo, un riflesso della storia di Dio», e che «l'uomo non è un orfano e non si può inquisire le vicende della sua famiglia senza tener conto di suo padre, ch'è Dio». La storia dev'essere una rivelazione. Sull'esempio di Sant'Agostino e di Bossuet, o si guardano le cose umane dall'alto, e allora acquistano un significato, o si rinuncia a questa prospettiva teologica, e allora le vicende della storia rimangono avvolte nell'assurdo.
   Agli scienziati dice:


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L'universo è un palinsesto e il geroglifico di una Scrittura Sacra, di una seconda Bibbia che ha bisogno di voi come interpreti e traslatori. Dovreste decifrare e ordinare in discorso le parole che Dio ha scritto in ogni pagina dell'universo. Se Dio ha creato il mondo, la sua opera porta necessariamente le tracce dell'anima e della volontà dell'artefice [...]. A voi spetta ritrovar quelle tracce, mostrar quella somiglianza.

   Ma se le conquiste della scienza non sono rivelazione di Dio, i loro conti non tornano. «Vi siete presentati come sacerdoti d'un nuovo dio che dovrebbe esiliare ogni altra divinità del museo delle vergogne antiche, ma il vostro dio ha le fattezze di Moloch assai più che i tratti del salvatore Apollo. Non vi rimane altra scelta: sparire o salire».
   La serie delle lettere continua: precise, provocatorie, scottanti. Ai preti:

   Credete veramente in Dio? Conoscete davvero Cristo? Avete adempito a tutto il dover vostro? [...] Troppi di voi sembrano semplici impiegati della Chiesa — uscieri, bidelli, scrivani, contabili — invece di apostoli insonni, impazienti, imperiosi. Troppi di voi sono assonnati e meccanici amministratori di sacramenti invece che testimoni, confessori, modelli irraggianti della verità che traboccò dalle labbra del Riscattatore [...].

   Ai monaci e ai frati:

   Non vi mischiate abbastanza nella mischia della vita... Non vi curate abbastanza di accorrere in aiuto delle anime in pericolo [...]. È necessaria, in questa età della decisiva battaglia tra Dio e Satana, una grande sortita, un disperato assalto alle torme incalzanti del Maligno.

   Le Lettere papiniane sono pervase da un autentico amore alla Chiesa e dettate da un forte senso di responsabilità nei riguardi della società in cui viviamo. Inoltre rendono al vivo il senso drammatico del Cristianesimo, l'urgenza d'una mobilitazione generale per un rinnovamento degli spiriti, dei metodi e delle strutture. In esse l'impegno morale di Papini si


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traduce in esigenza religiosa altissima, in coraggiosa analisi di problematiche, in intuizioni profetiche.

«Giungere all'ultima giornata con l'anima intera»

   Seguire Papini attraverso la sua opera è impresa ardua: oltre sessanta volumi, molti densi di problematiche, d'erudizione, d'intuizioni; ispirati a nobiltà d'intenti, all'amore e al rispetto di ciò che è genuinamente umano, al culto della verità e della dignità; geniali, ammantati di poesia, di vigore stilistico, di capacità evocative. La comparsa di molti di essi è stata lo scoppio d'una bomba nell'assonnata provincia italiana, ed ha suscitato polemiche, risse, confronti, ricerche, ardori. Tutto, eccetto che l'indifferenza.
   Ma la sorpresa più bella Papini ce l'ha offerta negli ultimi anni di vita. Chi, come lui, per tutta l'esistenza aveva contestato uomini e ideologie, non poteva non contestare l'asservimento dell'anima al corpo, grazie ad una sorta di miracolo nel quale la forza della fede è andata di pari passo con la forza della volontà.

   Sempre più cieco, sempre più immoto, sempre più silenzioso. La morte non è che immobilità taciturna nelle tenebre. Io muoio dunque un po' per giorno, a piccole dosi, secondo il modulo omeopatico.
   Ma io spero che Dio mi concederà la grazia, nonostante tutti i miei errori, di giungere all'ultima giornata con l'anima intera.


   V. Vettori, a proposito delle Lettere, scrive: «Il libro fu pubblicato nell'autunno del '46, ebbe subito un grande successo e parecchie traduzioni straniere. A rileggerlo con calma e attenzione vent'anni dopo, ci si accorge di essere qui dinanzi a una delle opere più significative e durevoli dello scrittore. Ed è vero che anche a queste, come a tante altre pagine papiniane, nuocciono l'eloquenza incalzante, che imprime al discorso un tono quasi sempre alto e vibrato, e l'impazienza implacabile che vorrebbe bruciare i tempi e ottenere da Dio una soluzione immediata dei più gravi e angosciosi problemi. Ma è altresì vero che questo è l'unico libro uscito in quegli anni dalla cultura cattolica, nel quale vengano chiaramente auspicati e prefigurati i mutamenti d'indirizzo a cui si giungerà poi in concreto col pontificato di papa Giovanni e col Concilio Vaticano II» 33.


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Vi giunse, difatti, con l'anima intera. Non solo, ma superando gravissime difficoltà riuscì a dettare — soprattutto alla nipote Anna — tanto materiale da mettere insieme vari volumi: La spia del mondo, La felicità dell'infelice, Schegge. Sono tra le sue cose più riuscite. La serenità spirituale, raggiunta con sforzi eroici, si dispiega sulla pagina in ondate di poesia che investono tutte le creature, in pacatezza di giudizi sugli argomenti più vari, in ricchezza di cultura, in ansia di sempre nuove conquiste, in concettosa densità.
   Nella lunga «felice agonia», Papini ha conquistato traguardi di felicità, e pazientemente, nelle famose Schegge, li ha comunicati agli uomini, come un dono d'amore e di poesia, come espressione della gioia cristiana di vivere. Qui troviamo la sua «anima intera», la sua vera misura d'uomo e di credente, il suo coraggio impareggiabile: e dettò messaggi come quelli di Mondo santo e bianco, Amare i nemici, Il cielo sopra i dormienti nei quali la sintesi del credente, del poeta, del pensatore acquista uno splendore e una potenza che sconfinano col sovrumano.
   Un giorno lontano, in una di quelle sue stupefacenti profezie, aveva preannunciato:

   C'è un canto dentro di me che devo ascoltare io solo, che devo soffrire e sopportare soltanto io. Questo canto non sarà detto che nell'ultima ora della mia vita; questo canto sarà il principio di una felice agonia 34.

   Quale canto? Quello del paralitico che, nell'immobilità della poltrona, fa l'Inventario delle felicità 35. Nelle cinque pagine non c'è più lo scroscio delle parole sonanti che un tempo fluivano dalla sua penna, né la violenza del polemista attento a non abbandonare la presa; c'è il canto d'un Giobbe nuovo: che si ripete d'essere «nato uomo e non bestia», «a immagine e somiglianza di Dio», «un essere verticale che guarda il cielo, illuminato dallo spirito, capace di essere purificato e redento


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dallo stesso dolore», con un'anima «tanto nobile che può venerare il genio e desiderare la santità», con un pensiero tanto potente che non solo ti rende «comproprietario d'un pianeta», ma ti permette di esaltarti accanto a Davide, Sofocle, Platone, San Francesco, Dante, Petrarca, Leopardi, Rousseau, Kierkegaard, Dostoevski, Nietzsche.

   Tu sei mortale come le giumente dei campi, ma soltanto a te splende la speranza — che per certuni è certezza — della finale vittoria sulla morte. Tu sei, pur nel carcere della carne e del tempo, l'impaziente larva di un Dio.

   L'Inventario della felicità continua: nascita in mezzo ad un popolo civile, in una nazione cristiana (i cui santi dimostrano «che l'uomo può essere più che umano, quando si unisce, lui morto, al vivo Cristo»), «in una delle contrade più meravigliose e gloriose della terra», in tempi «di sangue, di collasso e di spavento» (capaci pertanto di orientarci verso quei «beni che val davvero la pena di recuperare»).

   Alziamo dunque la testa per cercare con gli occhi un brano di cielo, un bacio di sole. La massima infelicità diventa ragion sufficiente della salita a una felicità maggiore. E la gioia più vera per gli attori di quella Divina Commedia ch'è l'umana vita, non è già di possedere, ma di riconquistare la felicità ch'è nostra per diritto di nascita e di guerra.
   E dunque tu, uomo di afflizione e di rancura, levati dal «canile di pruni», scuoti da te la polvere delittuosa e raccogli le tue felicità abbandonate.
   Fissa il cielo, guarda bene; si liquefanno le stelle nella caligine ma sulla riga d'oriente un'ombra d'oro annunzia la rivincita del reduce Padre.


   Raramente uno scrittore ha raggiunto una tale grandezza morale; raramente canto d'uomo ha raggiunto toni così stupendi; raramente una «giovinezza» è esplosa in tale pienezza di vitalità. Tutto ciò «relega in lontani silenzi la retorica dell'antico polemista. Anche il pretenzioso titano cede il posto alla figura pacata dell'uomo Papini come lo avevano sempre


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conosciuto gli amici nella sua tenerezza inesplorata, nel suo umile bisogno d'amore. Il tempo ha fatto cadere le pagine sonanti e ambiziose e va decantando nell'immensa opera questo aspetto più vero di lui» 36.

Limiti e pregi di Papini

   Dopo la morte dello scrittore — 8 luglio 1956 — taluni critici si son dati da fare per innalzare, attorno all'autore della Storia di Cristo, la barriera del silenzio e dell'indifferenza. In varie storie della letteratura contemporanea o gli si dedicano poche scialbe parole o lo si ignora. Oltre che atto di disonestà, ciò è anche effetto di miopia intellettuale.
   Impossibile negarlo. A Papini hanno tutt'altro che giovato i suoi eccessi di stile, l'aver troppe volte abusato della sua bravura dizionaresca, l'aver finanche coniata certa terminologia demolitrice quando non gli bastava quella del vocabolario, che pur conosceva perfettamente. Poco graditi riescono quei suoi compiacimenti verbali, quelle frequenti forzature di toni, quel caricare la mano sul colore, quella tendenza di portare l'espressione al superlativo, quell'uso intemperante del paradosso: queste ed altre cose che scoprono troppe volte il proposito d'impressionare a tutti i costi e di essere originale.
   Inoltre, pochi autori ottengono così spesso di attrarre fortemente il lettore e nel meglio del godimento offertogli di allontanarlo con qualche cosa che non va, come Giovanni Papini. E certamente non vanno quel piglio altezzoso da legislatore assolutista, quelle incursioni troppo sicure su zone non sempre ben note, quel sistemare le cose più per via di affermazioni categoriche che per validi argomenti, quell'insistere troppo esclusivo sopra un aspetto soltanto d'una questione o d'un personaggio, quel soverchio affidamento al proprio modo d'interpretare finanche certe figure storiche, Dante, Michelangelo e qualche altro. Sono, questi, i limiti di Papini 37.


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   Sarebbe però grave fermarsi ad essi senza saper raggiungere l'anima dello scrittore e, conseguentemente, scoprire il significato della sua presenza nella cultura del nostro secolo.
   Egli è stato innanzitutto l'uomo della ricerca inquieta. Il suo ribellismo, la sua provocazione, il suo smaniare verso tutti i punti dell'orizzonte, il suo avventurarsi su tutte le strade per abbattere le impalcature circostanti, altro non sono che reazioni alla menzogna del pensiero ufficiale, della storia ufficiale, della vita ufficiale. Ufficialità che gli si presentava come tradimento alle esigenze naturali e tradizionali del nostro popolo, come paralisi intellettuale e morale 38.
   Andando contro corrente e mandando in frantumi gli idoli del passato e le cristallizzate forme dell'intelligenza e della cultura nostrana, intese agire sull'uomo, rivendicandone la dignità e l'originalità. Cioè, la sua capacità di ricerca, di progettazione di se stesso, di artefice del suo destino, di rivolta contro le varie forme di disumanizzazione corrente e di servilismo intellettuale 39.
   Solo in questa prospettiva: di ricercatore di assoluto e di verità, di operaio impegnato ad «agire sull'anima» per riscoprire e rifare l'uomo, di assertore del primato della vita sull'ideologia, di amante della conquista rischiosa più che del possesso neghittoso — solo in questa prospettiva la sua avventura acquista unità e significato. Entrépeneur de demolitions come Bloy, guastatore di feste, profanatore di tombe, disturbatore della pubblica quiete, ma solo per scuotere le


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coscienze torpide, riattivare l'intelletto, ossigenare l'atmosfera, ricordare le più intime ragioni della vita.
   In un tempo di servilismo all'estetica idealistica ebbe il coraggio di vergare un saggio, Lo scrittore come maestro 40, che segna una fine e propone una meta. All'arte come gioco, l'arte per l'arte, l'arte godimento, l'arte slegata da ogni finalità spirituale, ha contrapposto l'arte come vita e come moralità, come impegno e come missione.

   Anche la storia letteraria — ha scritto nella premessa della Storia della letteratura italiana -, come qualunque opera di vero e onesto scrittore, dev'essere «vital nutrimento» per coloro che leggono. Date, vicende e varianti possono esser dette cibo ma non lo potremo giudicare vitale, ché sazia la curiosità, non l'anima. E l'esibirsi in giocolamenti teorici alle porte e sotto le finestre dei palazzi dell'arte può dar sollazzo ai cervelli non già sostanzioso ristoro allo spirito.

   Dopo questo rifiuto del metodo storico e del metodo estetico, spiegava che cosa intendesse per «vital nutrimento»: avviamento, cioè, all'esperienza della vita, ridestamento degli affetti, addestramento all'arte. E, pur sapendo lo scandalo che avrebbe suscitato, non esitò di concludere: una storia della letteratura deve essere educativa, cioè morale, civile, pragmatica.
   Perciò restò irriducibilmente contrario al Croce e non gli riuscì di ammirare, tanto meno amare, né Petrarca né D'Annunzio, pur rispettandoli come letterati di gran talento. Detestava «l'arte femmina», «l'arte di miele», «l'arte mondana», in cui si può soltanto ammirare la leggiadria o la sontuosità dell'abito come su un manichino di cera. Egli era per «l'arte maschia», «l'arte di macigno», «l'arte plebea», da Dante a Carducci, da Sant'Agostino a Cechov, da Michelangelo a Unamuno. Per l'arte, cioè, in cui si avvertono le vibrazioni del dramma umano.
   Centro della sua opera è l'uomo. Con passione instancabile


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lo ha inseguito su ogni strada, per interrogarlo, conoscerlo, salvarlo. In tal modo, ha messo su una loggia di busti, sbozzati con vigoria e immediatezza, percorrendo la quale ci è dato incontrare l'uomo eterno, dalle cento sfaccettature, sollecitato da infiniti richiami, alle prese con Dio e con Satana. Soprattutto, dietro ogni busto, s'incontra Papini, uomo dalle «diverse anime», corrucciato, esaltato, profetico, ma sempre coraggioso, sincero, impegnato.
   Con la sua missione di scrittore Papini non ha mai scherzato, né mai ha barato con la Verità. Una volta incontratala, le restò fedele pur conservando — nell'ambito dell'ortodossia — libertà di movimento e possibilità di qualche sdrucciolone (come avvenne per Il Diavolo).
   Per avere un'idea esatta della nobiltà del suo sentire nei riguardi della missione della letteratura, bisogna leggere — oltre che Lo scrittore come maestroLa moralità dell'arte. È un testo che, oggi più che mai, andrebbe meditato da ogni scrittore che si rifiuti di fare il mestierante e di correre dietro le mode del momento. Tra l'altro, scriveva:

   Questa la prima tragedia dello scrittore: esser libero, perché l'arte non soffra; essere, nello stesso tempo, legato e obbediente perché la sua libertà non sia a detrimento di quei valori morali e religiosi che sono e devono essere al di sopra dell'arte 41.

   Questa tragedia Papini l'aveva personalmente vissuta e risolta. Nella pienezza della libertà, aveva servito l'uomo, elevandolo. Lo scritto terminava con un augurio che onora chi lo ha formulato:

   Solo il giorno in cui il genio non sarà più separato dalla fede, che lo trascende ma pure lo potenzia, avremo una letteratura che non sia più offesa a Dio e insidia alle anime: allora soltanto, riconciliati nel bene eterno, potranno gli scrittori collaborare coi sacerdoti e coi santi al rinnovamento del genere umano (p. 205).

   Infine non va dimenticato il fascino che emana dalla sua


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pagina dovuto all'attrattiva di una prosa robusta, di salda e sapiente struttura, di una lingua modulata su tutti i toni, viva, espressiva, limpida.

Perché amo Papini

   Lo amo perché è stato un uomo. Ha vissuto intensamente, animato dalla passione delle battaglie e delle conquiste, puntando sempre lo sguardo su orizzonti di dignità, di elevatezza morale, d'intransigenza per quanto riguarda gli autentici valori della vita.
   Lo amo perché, andando controcorrente, ha saputo dire no a tutto ciò che è facile, comodo, comune, consuetudinario. Ha avuto la passione della contestazione, ma della contestazione costruttiva, in vista d'un mondo diverso, più dignitoso, più umano, più civile.
   Lo amo perché ha rifiutato la concezione d'una letteratura banale, diversiva, artificiale; che sfrutta gli istinti animali e sensuali dell'uomo, venale, svuotata d'anima, anemica. La letteratura — ci ha insegnato — oltre che arte, dev'essere pedagogia e profezia, cultura e messaggio.
   Lo amo perché ha descritto — anzi, cantato — le grandi ragioni del vivere: l'ansia dell'assoluto, il fremito della bellezza, il richiamo dell'amore, il bisogno di Dio, l'impazienza della verità.
   Lo amo perché, una volta incontrato Cristo, gli è rimasto sempre fedele, sfidando miserie, timori, stanchezze. Non solo, ma ha saputo ridestare nei cristiani sonnolenti la gioia d'una fede che libera e l'entusiasmo d'una lotta che si riflette nell'eternità.
   Lo amo perché, negli ultimi tempi della sua vita, ha offerto a tutti un altissimo esempio di come si debba sublimare la sofferenza, trasfigurare il tragico quotidiano, conservare la giovinezza dello spirito, vivere aperti alla storia.
   Lo amo, infine, perché, quattordici giorni prima di morire, tra inaudite sofferenze e superando barriere impossibili, è riuscito a dettare queste parole:


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   Guarda le stelle. Le stelle son meravigliose. Le stelle dicono, a chi sa leggere, una parola più giusta dei cattedranti e degli spacciatori di vanità. Il bruscolo di mota spenta sul quale premi i tuoi piedi non è che un grano stellare in un precipizio senza rive. Non ti gonfiare al soffio della superbia, non ti credere un dio padrone, un re terrestre; confessa che non sei creatore, ma creatura.
   Le nostre filosofie son come l'erba de' tetti, che secca prima d'aver fiorito — sentenze di cenere e ragioni di vento. Siamo soli sull'orlo dell'infinito; perché rifiuteremo la mano d'un padre? Siamo sbattuti, noi effimeri, dall'alito dell'eternità: perché rifiuteremo un sostegno, sia pure a patto d'esservi attaccati coi chiodi d'una croce di campagna
42?


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